da L’Arena di Verona del 28/12/2011
LA STORIA. Due giovani coniugi di Santa Lucia hanno scelto di donare un periodo della loro vita in una missione della diocesi veronese in Mozambico, a Namahaca. Lucia ed Emiliano: «La scelta di partire è maturata in un cammino di fede. Abbiamo insegnato, ma soprattutto imparato tante cose»
Quando raccontano della propria esperienza che da più di due anni stanno vivendo in Mozambico, nella missione di Namahaca, i loro occhi brillano di una vigorosa forza d’animo e le loro parole rivelano l’amore profondo per la gente che stanno aiutando.
Lucia Vesentini, 34 anni, ed Emiliano Composta, 35 anni, sono una coppia di sposi veronesi che hanno scelto di donare tre anni della propria vita agli ultimi dell’Africa. «Stiamo camminando con loro», spiegano con autentico entusiasmo. Una testimonianza come missionari laici «fidei donum» con mandato della diocesi scaligera. Due angeli bianchi nella terra povera del Continente nero. Verona è anche questo, e loro ne rappresentano la meglio gioventù. «Entrambi condividiamo un cammino di fede, la scelta di partire per la missione diocesana in Mozambico è maturata dopo il matrimonio», precisano. La ricerca di un «orizzonte comune» li ha portati geograficamente lontano.
LUCIA, del quartiere Santa Lucia, dopo la maturità classica, la laurea in giurisprudenza, una specializzazione in studi sulla comunità internazionale con uno stage alle Nazioni Unite e la pratica in uno studio legale, è avvocato dal 2005. Ha sempre collaborato con la parrocchia del rione. Per anni è stata animatrice dell’Azione cattolica e alle spalle ha un’esperienza missionaria di tre mesi in Brasile. Emiliano, originario di Negrar, ha invece una preparazione tecnica: prima geometra e poi ingegnere civile. Nella sua parrocchia è stato animatore del gruppo adolescenti. I due giovani, conosciutisi sul treno che li portava all’università di Trento, si sono sposati nel 2007 e abitano a Santa Lucia. Per due anni hanno frequentato il corso di orientamento del Centro missionario, a metà del quale hanno svolto un «tirocinio» di 15 giorni nell’attuale missione. Poi, la decisione di stabilirsi a Namahaca per un periodo ben più lungo.
Cosa vi ha spinto ad andare? «Potrei dire che non c’erano ragioni abbastanza buone per rimanere a casa», risponde Emiliano. Nel 2009 la partenza, dopo un corso di tre mesi di lingua portoghese a Lisbona e un corso al Cum (Centro unitario missionario), «che è stato importante» dicono, «perché c’è bisogno di avere strumenti per leggere e interpretare una cultura completamente diversa dalla nostra». Lucia rammenta la raccomandazione che hanno ricevuto al corso del Cum: «Quando vi accostate a un altro popolo entrate in una terra sacra quindi, come Mosè, lasciate i sandali ed entrate a piedi scalzi». Ciò comporta il dover abbandonare i propri schemi mentali. «Significa», spiega Lucia, «dismettere le nostre automaticità problema-soluzione, rispettare tempi e modalità loro sempre con autocontrollo».
LA MISSIONE, fondata dai comboniani nel 1948, è ora della diocesi di Verona, subentrata nel 2007, e attualmente ospita due sacerdoti, tre suore della Sacra Famiglia e un’altra coppia di Tregnago. «Le persone vivono di un’agricoltura di sussistenza», dichiara Emiliano. «Noi diamo un appoggio alla parrocchia di Namahaca che è una delle 23 della diocesi di Nacala. Lavoriamo con bambini, mamme, piccoli malati, forniamo informazioni sui diritti e sull’igiene». Emiliano, per formazione, ha un occhio di riguardo in particolare verso le strutture del villaggio e collabora alle manutenzioni: «Noi però non siamo andati a costruire niente perché il nostro obiettivo principale è accompagnare le persone locali ad auto-sostenere i progetti». È stato aperto un centro nutrizionale e avviato un progetto di microcredito. Lucia, che è iscritta al Cif (Centro italiano femminile), illustra il progetto educativo di promozione della donna: «Abbiamo un convitto femminile, uno studentato con 30 bambine dell’età delle medie che studiano nella scuola pubblica e poi vivono il resto della giornata con noi. Il fatto che io ed Emiliano abbiamo un rapporto paritario e conversiamo guardandoci negli occhi, per loro è stranissimo; la donna là abbassa sempre gli occhi e non parla direttamente col marito, soprattutto in pubblico».
Lucia ed Emiliano si preoccupano inoltre di far conoscere meglio agli abitanti del posto le leggi locali e i diritti umani perché essi possano pretenderne il rispetto dinanzi alle autorità e anche dalle stesse istituzioni. Li incoraggiano a proteggere il proprio territorio, a far valere i propri diritti, a riconoscere e a denunciare le situazioni irregolari. Indicano gli strumenti da utilizzare, dalle lettere di protesta alle assemblee pubbliche. Lucia porta un esempio concreto: il problema del taglio clandestino di legname. «Siamo in una zona di foresta» racconta «e accade che di notte arriva gente con i camion, quasi sempre finanziata dai cinesi, per tagliare alberi pregiati come l’ebano che poi sono inviati verso l’India e la Cina e trasformati in mobili. Noi diciamo alla gente: questa è la vostra ricchezza, sono i vostri alberi da cui ricavate legna da ardere, perciò segnaliamo insieme i casi di taglio clandestino alle autorità».
MA COM’È l’accoglienza nei loro confronti? «È splendida, la gente percepisce che non siamo lì per attività di lucro ma sa che siamo lì per loro e ci vuole bene», rispondono. A Namahaca il problema non è la terra, «che sarebbe fertile», ma è l’acqua che scarseggia. Laggiù ci sono tre mesi di pioggia all’anno. Con 3 mesi devi coprirne 12. Ecco anche perché Emiliano, per tentare di riuscire a recuperare più acqua possibile, aveva preparato un progetto per realizzare una cisterna interrata per raccogliere acqua dal tetto della grande chiesa. Emiliano, però, è un po’ amareggiato. Lo si avverte dal tono della voce, che cambia modulazione e si fa triste. Questa idea, infatti, è rimasta sulla carta. Per trovare sostegno all’opera, aveva concorso con la sua proposta a un bando presso un istituto bancario veronese, che non ha accolto il progetto.
I RISCHI per la salute non hanno fermato Lucia ed Emiliano. I coniugi hanno patito malarie e problemi intestinali. «Fanno parte del pacchetto… e la malaria si cura», dice Lucia tranquillamente. «Durante i primi mesi abbiamo fatto profilassi ma poi devi lasciare perché non la puoi fare per un periodo troppo lungo». In questi due anni, hanno insegnato molto alla gente del Mozambico ma restano con i piedi per terra: «Abbiamo insegnato ben poco, abbiamo camminato con loro, c’è stato uno scambio. Speriamo di avere assorbito due cose: il respiro e il silenzio». Lucia precisa: «Penso che il respiro sia ciò che ci differenzia di più dagli africani. Noi l’abbiamo sempre molto affannato, molto corto. Quando arrivi giù senti invece un respiro lungo, difficilmente affannato, che aiuta a vivere meglio. Questa cosa è entrata dentro di noi e adesso che siamo tornati l’abbiamo avvertita tantissimo. Poi, rientrare in Italia in questo momento di crisi, senti molto quest’ansia mentre là, pur vivendo situazioni di emergenza come epidemie, siccità e decessi di bambini, il respiro è sempre lungo». E poi spiega il valore del silenzio africano: «Se, per esempio, sei chiamato a partecipare alla cerimonia del funerale, tu vai pensando di dover dare tante parole buone, di dover consolare, in realtà entri in una dimensione di silenzio: arrivi, ti siedi e stai in silenzio, non devi dire nulla. Per noi è imbarazzante ma là quello che conta è la presenza».
I due giovani missionari laici sono tornati a casa per un breve periodo di vacanza ma ora sono di nuovo a Namahaca. Rientreranno definitivamente a Verona il prossimo giugno. Dall’inizio di questa esperienza, Lucia ed Emiliano mantengono un filo diretto con gli amici e col mondo anche attraverso il web: periodicamente aggiornano il loro blog all’indirizzo https://namahaca.wordpress.com con informazioni, foto e video. È un diario di bordo che questi due angeli dei dimenticati hanno intitolato: «Missione Namahaca».
Marco Scipolo
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